Nel periodo di cui racconta il brano 77-93 Giuseppe Flavio risiede in un villaggio della Galilea chiamato Cana (86). Il suo compito più importante, “prima di ogni altra cosa” (78), è di mantenere la pace nella Galilea.
Lui ha circa trent’anni, il suo posto nella Galilea è quello di grand’autorità. Giuseppe non vuole esercitare il suo potere da solo, ma fa partecipare ai giudizi e alla proclamazione delle sentenze quelli che erano a capo dei Galilei, settanta persone in tutto, i suoi “amici e compagni di viaggio” (79). Lui dice - come una esplicazione - che cerca “di non mancare alla giustizia per precipitazione e di mantenersi puro da ogni profitto tratto da esse” (79).
Occupando questo “posto di grand’autorità” non ha fatto “violenza a nessuna donna” e aveva “disprezzato tutti i doni come se non ne avessi bisogno alcuno, anzi, non accettava da quelli che gli le portavano neppure le decime” che gli “erano dovute in quanto sacerdote” (80). Quando ha preso con la forza due volte Sefforis, quattro volte Tiberiade e una volta Gabara e quando ha avuto in suo potere Giovanni, il suo nemico, che spesso dall’invidia ha complottato contro di lui, non si è mai vendicato né Giovanni né di alcuna delle città soprannominate. Anzi, quando le città di Galilea sono state prese con la forza e le mogli e i figli dei Galilei venivano ridotti in schiavitù, i Galilei stessi, come dice Giuseppe, non si lamentavano tanto delle loro sventure, quanto si preoccupavano della sua salvezza (85). E tutto questo perché loro hanno avuto l’attaccamento, rispetto e la fedeltà per lui grazie alla sua protezione su di loro famiglie.
Per tutti questi motivi: la misericordia, il perdono, la bontà nell’esercitazione del suo potere Giuseppe ha creduto che anche Dio sarà misericordioso su di lui, che lo salverà dalle mani dei nemici e che lo proteggerà nei pericoli.
Purtroppo - come possiamo vedere leggendo il racconto - c’erano anche le persone che furono prese da invidia contro di Flavio Giuseppe e il suo atteggiamento. Per esempio, un uomo chiamato Giovanni, che arrivando in Tiberiade, voleva convincere gli abitanti ad abbandonare Giuseppe e ad unirsi a lui. Giovanni ha trovato alcune persone a Tiberiade, Giusto e suo padre Pisto, che hanno accettato “con piacere” il suo invito. E’ interessante che Giuseppe non condanna loro, ma - forse diplomaticamente - vuole piuttosto giustificarli, almeno un po’, e spiega che questi uomini, che sono andati dietro di Giovanni e Giusto, “desideravano sempre novità ed erano per loro natura favorevoli ai cambiamenti e contenti delle rivolte” (87). Arrivato a Tiberiade con i duecento uomini Giuseppe non voleva rendere la città con forza, ma puro ha annunciato il suo arrivo agli abitanti di Tiberiade, volendo fare tutto con pace e senza spargimento di sangue. Con successo, perché dopo esortazione di Giuseppe “a non ribellarsi cosi in fretta”, tutti gli abitanti hanno riaccettato il suo governo. Anche in quest’episodio Giuseppe vuole dimostrare se stesso - consapevolmente o no - come un uomo profondamente pacifico, misericordioso, aperto al perdono, rispettando al primo posto le norme religiose a aspettando il premio e la protezione per la sua fedeltà dalla parte di Dio.
Nel nostro brano troviamo alcune espressioni oscure. Nei numeri 87-89 Giuseppe afferma che molti abitanti di Tiberiade hanno accettato l’invito di Giovanni ad abbandonare Giuseppe e unirsi con lui. Allora Giuseppe racconta che ha ricevuto le informazioni su quelle cose dalla parte di Sila, che aveva posto al commando di Tiberiade, “come ho già detto”. Nella “Vita” invece non abbiamo nessuna parola sul questo. Forse lui voleva dire, ma non ha scritto niente. Solo nel libro di “Guerra giudaica” (II, 616) abbiamo l’informazione che Sila era posto al comando di Tiberiade da Giuseppe e che lui ha scritto (mandandolo forse per un messaggero) una lettera da Giuseppe per informarlo della possibilità di rivolta a Tiberiade.
Nel numero 91 leggiamo, che quando Giuseppe è arrivato con i suoi uomini vicino a Tiberiade la popolazione insieme con Giovanni gli venne incontro. Giovanni lo salutò, “tutto confuso e temendo che se avrebbe corso il pericolo di essere ucciso, si ritirò in fretta nel suo alloggio”. Lo stesso racconto nella “Guerra giudaica” (II, 617) descrive che Giovanni mandava uno dei suoi amici a dire che non poteva venire, “fingendosi” malato. Questa è una leggera divergenza tra i due testi.
Il brano 349-367 è la seconda e ultima parte di “questa necessaria digressione su Giusto” (367) - come dice Giuseppe Flavio - contenendo i paragrafi dal 336 al 367.
Giusto nel suo racconto sui eventi in Galilea ha scritto che Giuseppe è responsabile della rivolta contro i Romani. Secondo Giuseppe questo non è vero, perché lui in quel tempo era prigioniero dei Romani e Giotapata e molte fortezze furono già prese dai Romani con la forza (cf. 350). Allora, Giusto è quello che è responsabile della guerra, perché ha potuto senza temere gettare le armi dopo l’imprigionare di Giuseppe, ma ha fatto questo solo dopo l’arrivo di Vespasiano per la paura di lui. La spiegazione di Giuseppe non è vera assolutamente. Il partito favorevole alla guerra, come significa Josse (p. 205) “era quello di Galilei di Gesù di Saffia”. Giuseppe vuole probabilmente ritorcere tutta la responsabilità della rivolta contro i Romani su Giusto. Poi dice che lui, Giuseppe, anche se ha avuto Giusto e i suoi amici nel suo potere, non ha mai ucciso nessuno, mentre loro, quando lui era assediato a Giotapata, hanno ucciso centoottantacinque concittadini. Chi è allora quello “furfante” di cui dice Giusto? Secondo Giuseppe il furfante è Giusto. Lui era condannato a morte da Vespasiano, ma gli era concessa la salvezza dal re Agrippa “solo per le preghiere insistenti della sorella Berenice”, il re Agrippa gli ha ordinato molte volte di lasciare la patria, e dopo “tutte queste infamie” lui gli ha affidato l’incarico di segretario (una domanda - come mai?!), ma quando l’ha scoperto disonesto, l’ha allontanato dalla sua vista. Tutte queste cose, secondo Giuseppe, dimostrano chiaramente, che vero furfante non è lui, ma proprio Giusto.
Il secondo argomento menzionato da Giuseppe nel suo racconto, è l’opinione di Giusto che lui ha scritto meglio di tutti altri la storia dei fatti in Galilea. Giuseppe chiama questa opinione impudente, perché 1° Giusto non sa quel che è avvenuto in Galilea perché in quel periodo era a Berito dal re, 2° non ha seguito quello che “i Romani hanno sofferto e ci hanno inflitto” (357) nell’assedio di Giotapata, 3° non ha potuto sapere quello che Giuseppe ha fatto quando era assediato. In aggiunta tutti i testimoni di quegli avvenimenti sono stati uccisi nel combattimento (ad eccezione di Giuseppe!).
Le seguenti prove di lui sono che il racconto di Giusto è in chiaro contrasto con i commentari di Cesare, e che Giusto ha pubblicato i suoi racconti dopo venti anni, cioè quando i testimoni diretti degli eventi: gli imperatori Vespasiano e Tito, il re Agrippa e tutta la sua famiglia, erano già morti. Queste informazioni sono interessanti per la collocazione cronologica della “Vita”, anche se non sono esatte. Secondo la datazione di Giuseppe possiamo accettare che i racconti di Giusto erano scritte prima del 79 e la loro pubblicazione era circa l’anno 98. Ma qui abbiamo un problema perché il re Agrippa è morto nel 100. Allora Giuseppe pensava probabilmente di più o meno venti anni, forse venti cinque o - la seconda possibilità - la informazione sulla morte di cesare Vespasiano è inesatta.
Torniamo adesso da Giuseppe. Lui ha consegnato i suoi libri agli imperatori Vespasiano e Tito per “ottenere la testimonianza della sua esattezza” (360), perché era “cosciente... di aver conservato la verità del racconto” (361). Ha mandato i suoi libri anche al re Agrippa e alcuni suoi parenti. L’imperatore Tito voleva che la conoscenza degli avvenimenti era data al mondo solo dai libri di Giuseppe che lui, cioè l’imperatore, ha firmato di sua mano e ordinato a pubblicare (cf. 363). Secondo Giuseppe il re Agrippa ha scritto a lui anche sessantadue lettere (!) per attestare la verità del racconto, da cui lettere Giuseppe riporta nella “Vita” due, probabilmente più importante cioè quelle che più esplicite affermano le parole di Giuseppe. E’ interessante che queste due lettere non sono così chiare. Nella prima lettera il re Agrippa scrive: “... mi sembra che hai riferito con esattezza, molto più accuratamente degli altri che hanno scritto di queste cose”. Invece nella seconda lettera lui ha scritto prima: “... si vede che non hai bisogno di alcun insegnamento su come far sì che ti leggiamo tutti dal principio alla fine”, ma poi dice: “comunque, se mi vieni a trovare, ti informerò anch’io di molte cose che non sono conosciute” (366). E questo significa che i racconti di Giuseppe non contengono tutte le informazioni, tutta la verità, che lui ha scritto soltanto dal suo punto di vista, cioè soggettivamente. Probabilmente ha ragione Jossa quando nelle note alla traduzione scrive che la seconda lettera contiene “una esplicita riserva sulla completezza del racconto. Certamente, se queste sono le più calorose tra le sessantadue lettere che Agrippa II avrebbe scritto a Giuseppe, c’è da sospettare che egli non avesse molto apprezzato il racconto dello storico” (p. 206). Ma dal punto di vista di Giuseppe il re Agrippa gli ha testimoniato la verità, “come tutti coloro che hanno letto le mie storie” (367).
Flavio Giuseppe, Autobiografia, (trad. G. Jossa), Napoli 1992
(tutte sottolineature sono mie - Wojciech Michniewicz)
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